domenica 23 febbraio 2014

IL GIORNO IN CUI IL PAESE SMISE DI FIDARSI DELLA MEDICINA ITALIANA

Perché darsi la pena di innovare, se «basta prendere un treno per Roma con una valigia piena di contante»?
http://www.cilentonotizie.it/public/images/valigia_con_soldi_01.jpg
Succedeva proprio di tutto in quel marzo del 1993, e gli italiani quasi non si accorsero di Giulietta Masina in lacrime seduta in platea al Dorothy Chandler Pavillon di Los Angeles, col suo Federico che le dedicava l’Oscar alla carriera.

Della cessione di Erbamont agli svedesi poi, interessava quasi nulla a nessuno, e se ne trovava notizia soltanto nelle pagine economiche. Ad accendere gli animi di tutti era piuttosto il ciclone Tangentopoli, con Antonio Di Pietro, allora magistrato,  che scorrazzava per il paese a mettere in galera mezza classe dirigente, mentre l’altra mezza stava ben nascosta a tremare.
 http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/03/23/erbamont-va-agli-svedesi.html

Non erano i tempi per piangere la perdita di un’industria farmaceutica nazionale, nei giorni in cui diventava palese a tutti che quell’industria, invece di trovare nuove medicine, pagava i politici, e che invece di fare le cose per bene riempiva d’oro i funzionari ministeriali.

Mentre Carlo Sama firmava l’accordo con gli svedesi, infatti, i magistrati firmavano l’ordine di cattura per Giovanni Marone (
ex segretario personale di Francesco De Lorenzo allora Ministro della Sanità)
La sua messa agli arresti domiciliari sotto il cielo primaverile di Posillipo il 29 marzo 1993 segnò per l’immagine pubblica dell’industria farmaceutica un punto di non ritorno. Dopo aver letto il memoriale che il quarantenne napoletano, segretario dell’allora ministro della Sanità Francesco De Lorenzo, consegnò ai giudici, il paese decise che non si sarebbe mai più fidato della medicina italiana.
Noi, che nella sanità vivevamo e lavoravamo, forse non ce ne stupimmo più di tanto; fu come vedere confermati, finalmente, troppi dubbi e troppi “si dice” e, contemporaneamente, vedere spiegati troppi incongrui medico-sanitari, incompatibili con la ratio scientifica o clinica, ma a quel punto molto chiari alla luce delle tangenti.
Per il paese, tuttavia, l’impressione nel leggere nero su bianco le confessioni di un collettore di mazzette che raccontava i modi di quelle che Di Pietro chiamò «dazioni» di denaro, e nello scoprire che le pillole in Italia entravano in farmacia per lo più grazie a quelle dazioni a prescindere dal loro reale valore, fu forte (per non dire dell’orrore dello scandalo del sangue infetto).
VIDEO: http://youtu.be/tpdVmPUqZxU

Marone raccontò tutto, e fu un fiume di ordini di cattura, di arresti, di interrogatori e perquisizioni. Finì in galera mezzo establishment farmaceutico, professori e industriali. Finì in galera il ministro Francesco De Lorenzo, finirono in galera i professori della Commissione interministeriale prezzi farmaci e il direttore generale della divisione farmaci del ministero Duilio Poggiolini con la moglie Pierr Di Maria, che conservava nascosti, dentro divani e pouf del salotto nel suo villone all’Eur, miliardi in contanti, lingotti, gioielli e persino rubli d’oro dello zar Nicola II.
Della vicenda, The cancer ne parlo’ qui: I vampiri della Sanità

Il ciclone riguardava, appunto, mazzette riscosse per dare il via libera alla commercializzazione di farmaci e materiale sanitario. Ci fu anche un filone dell’inchiesta che parlava di 150 milioni di lire versati da Fininvest per assicurarsi i soldi pubblici destinati allo spot tv sulla prevenzione dell’Aids.
Tanto per dire che nessun orrore fu risparmiato ai cittadini increduli.
A pochi venne in mente che tutti quei soldi erano di certo, come avrebbero poi confermato i processi in tutti i gradi di giudizio, l’obolo riconoscente per il via libera a prezzo generoso dei diversi farmaci pagati dal Servizio Sanitario Nazionale (SSN), ma erano anche il segno forte di una gratitudine strutturale. Per una regalia all’industria nostrana sancita con la legge n. 349 del 19 ottobre 1991 firmata da De Lorenzo e voluta da Poggiolini, della quale, anche, paghiamo tutti le conseguenze e per lungo tempo ancora le pagheremo...

Stiamo parlando della legge che istituì i ricchi Certificati Complementari di Protezione (CCP), e che, negli anni della grande rivoluzione farmaceutica mondiale, delle fusioni mirate a costruire colossi multinazionali capaci di innovare e sbaragliare i mercati, metteva in sicurezza l’ Italietta usa a copiare e vendere molecole altrui, disinteressata com’era alla ricerca di medicine innovative perché guadagnava abbastanza smerciando quelle degli altri.

Questa era, ed è, l’industria farmaceutica italiana: una rete di vendita potente e aggressiva, alimentata dalla possibilità di lasciare sul mercato italiano per anni e anni medicinali che altrove sono già diventati generici.

Grazie alla legge che ha istituito i CCP, che proteggono i brevetti per invenzione industriale concessi ai medicinali per un periodo aggiuntivo immediatamente successivo alla scadenza dei loro brevetti: venti anni dalla richiesta del brevetto stesso. L’Italia è un mercato protetto per un tempo assai più lungo di ogni altro. Perché se è vero, come diremo tra breve, che sia l’Europa che gli Stati Uniti riconoscono protezioni di questo tipo, nessuno allunga i tempi come l’Italia.

L’industria poteva così dormire sonni tranquilli, senza pensare a fondersi e fare massa critica per fronteggiare le multinazionali e senza darsi pena di innovare. Questo è il peccato originale che ci ha estromesso dal big business farmaceutico e dalla grande ricerca biomedica: la vocazione delle imprese nostrane a copiare senza innovare, garantita in questo mestiere da leggi compiacenti scritte da politici rapaci.
Per capire bene cosa è accaduto, serve, però, un passo indietro. (...)

Quel treno per Roma

Il disimpegno nella ricerca unito alla politica autarchica del governo fascista ottennero un risultato nefasto. Tra le due guerre, fu il regime a imporre che si sostituissero le medicine straniere con equivalenti prodotte nelle patrie fabbriche. L’Italia avrebbe saputo fare da sé, sbraitavano i gerarchi e i farmacisti del Regno, tutti a ingegnarsi sulla letteratura scientifica tedesca o inglese per scoprire come fabbricare aspirine, sulfamidici, antimalarici, tranquillanti ed eccitanti.
E poi, nel dopoguerra, antibiotici, cardiaci e tutto quanto alimentò il miracolo farmaceutico degli anni cinquanta e sessanta.

(...) all’inizio degli anni sessanta questo sembrò un plus, sembrò il modo migliore per approcciare un mercato diversificato e parcellizzato in migliaia di ospedali e ambulatori medici. Ecco allora definito il tratto distintivo: industrie che lavoravano su molecole originali ideate altrove cambiando al più qualche marginale elemento del prodotto finale, ma che, nel loro complesso, potevano offrire una grande capillarità di vendita alle imprese straniere facendo perno sui rapporti diretti e personali coi medici che le differenti realtà imprenditoriali vantavano nelle diverse parti del paese.
Così la parcellizzazione del territorio italiano si saldava col co-marketing, ovvero l’accordo commerciale tra l’industria straniera che aveva scoperto la molecola e quella italiana che si sarebbe incaricata di venderla sul nostro territorio.
Il peccato originale del mercato farmaceutico nostrano.

«In Italia non c’è una Big Pharma perché non era necessaria per avere un grande business farmaceutico. Le imprese italiane non hanno avuto bisogno di medicine innovative, e quindi di fare in modo di scoprire nuove molecole efficaci. Perché l’Italia, anche politicamente, ha sposato la strada del co-marketing. È stata data la possibilità alle aziende farmaceutiche italiane di fare degli accordi con le americane o le europee che avevano i nuovi farmaci. L’industria farmaceutica italiana pagava dei diritti di sfruttamento molto alti ma aveva in mano il meglio della scienza mondiale. Certo, poi doveva assicurarsi su quel farmaco profitti importanti, ma lo ha sempre fatto col marketing “molto aggressivo”»: Nello Martini, ex direttore generale dell’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) quando parla dell’industria italiana, ha sempre stampato sulla faccia il sorrisetto di uno che sa bene come sono andate le cose negli ultimi cinquant’anni.
 Martini peraltro, fu accusato nel 2008 del mancato aggiornamento delle condizioni di autorizzazione al commercio di 22 medicinali e del conseguente ritardo nell’aggiornamento dei foglietti illustrativi con le avvertenze per i pazienti.
Da qui un’ipotesi di reato, quella di “disastro colposo”, che gli venne contestata dal procuratore aggiunto di Torino Raffaele Guariniello.
http://www.quotidianosanita.it/cronache/articolo.php?articolo_id=6639

Da quando lo hanno cacciato dall’AIFA, in maniera violenta e offensiva, di fatto perché ha provato a fare del nostro mercato farmaceutico un mercato normale, il sorrisetto si è trasformato in una piega amara, ma nessuno ha cancellato l’ironia irriverente da quegli occhietti furbi. Lui li ha visti gli industriali salire e scendere le scale col cappello in mano, fin su nel suo studio, ne conosce i molti vizi e le poche virtù.
E quando coniò questo termine, «marketing aggressivo», li mandò su tutte le furie, perché per la prima volta qualcuno si permetteva di dire che le pressioni sui medici andavano allentate e che il mercato farmaceutico doveva diventare un mercato normale.

Nella nostra mente il marketing nel libero mercato è aggressivo per definizione, ma in Italia ci sono delle storture che di libero mercato non hanno proprio il sapore. Perché l’industria italiana in realtà non ha un profilo di ricerca e non ha nella propria “pipeline” 
(l'insieme dei potenziali farmaci in corso di sviluppo per il trattamento di una patologia) dei farmaci innovativi, punta tutto sugli informatori farmaceutici e quindi sul rapporto con i medici per estendere le prescrizioni.

Questo è il marketing aggressivo: quello che riesce ad avere delle quote di profitto molto alte, molto accentuate, senza puntare sull’innovazione ma su un rapporto anomalo con i prescrittori, i medici che spendono in nome del Servizio Sanitario Nazionale.
Le mille storie dei dottori in vacanza a spese delle aziende, dei regalini e degli “incentivi” a prescrivere si sono lette per anni. Noi abbiamo l’impressione che in quelle storie ci fosse molto rumore di fondo, risultato di un’attività scandalistica legata a doppio filo alla caduta d’immagine della medicina italiana nel dopo Poggiolini, ma, fatta la tara dei – molti o pochi che siano – medici corrotti, di certo il problema di calmierare le prescrizioni si pose in maniera importante, e ancora si pone.

(…) Resta però la stranezza del co-marketing: è chiaro che per le imprese italiane ha costituito una rendita di posizione, ma perché le grandi americane ed europee hanno accettato questa cabala?
Per l’ovvia ragione che questo volevano i politici italiani dai quali comunque dipende la vita commerciale di una medicina nel nostro paese.

«La politica non ha mai assunto seriamente il farmaco come un elemento di sviluppo del paese», commenta Martini.
Lui nasce democristiano, ancorché di sinistra; difficile fargli dire cose forti sulla politica, preferisce prendersela con l’industria. Ma è lui a mettere elegantemente nero su bianco la madre di tutte le storture italiane: «Siamo in attesa di una classe dirigente che creda sul serio a una nuova politica del farmaco, che lo guardi non solo come elemento di spesa, e quindi come variabile dipendente del Ministero delle Finanze, ma anche come uno strumento di crescita del paese e delle politiche di welfare. Fra i politici e gli industriali c’è stato un rapporto molto stretto e quindi sicuramente questo non ha favorito un disegno diverso: perché il sistema in essere garantiva un reciproco vantaggio. Le aziende italiane potevano sopravvivere bene anche senza innovazione, e ovviamente parte di questo profitto veniva giocato, diciamo così, nei rapporti con il mondo politico e istituzionale. È questa la verità».

Molte inchieste della magistratura hanno dettagliato questo «reciproco vantaggio» e hanno raccontato come i soldi dell’industria siano finiti nelle tasche dei politici, direttamente o tramite una selva di associazioni e società che hanno ricevuto e ricevono i contributi delle industrie ma sono, in realtà, il cortile dove pascolano diversi deputati, senatori e funzionari ministeriali. Non è compito di questo libro elencare queste malefatte, i giornali e i siti internet ne sono pieni.
Ci serve, però, sottolineare questo pernicioso intreccio, perché è lo strato melmoso sul quale è cresciuta un’industria incapace, o meglio disinteressata all’innovazione.

In sintesi, dunque, si sono sviluppate in Italia imprese che fanno sostanzialmente due cose: vendono prodotti degli altri sui quali pagano belle royalties, e copiano le innovazioni di Big Pharma facendone delle variazioni che non incidono di fatto sulle proprietà terapeutiche (si tratta dell’innovazione di processo, della quale diremo tra breve), non investendo granché.

Questa industria, però, in ogni caso, vive sulla ricerca altrui e paga per questo. Quindi deve guadagnare molto sui singoli prodotti, e ciò si può garantire in alcuni e ben definiti modi: per prima cosa facendo entrare nel prontuario farmaceutico, tra le medicine pagate dal SSN, sia copie identiche di un farmaco straniero concesso in co-marketing dall’industria che lo ha scoperto (l’esempio più famoso è la molecola ranitidina, antiulcera venduta per decenni dall’inglese che l’ha sperimentata, Glaxo, come Zantac e dall’italiana Menarini come Ranidil), sia prodotti che di innovativo non hanno nulla ma sono riformulazioni più o meno fantasiose di quelli originali.
Poi ottenendo di vendere a un prezzo capace di coprire le royalties da pagare agli stranieri e gli altissimi costi del marketing aggressivo. Infine, ma soprattutto, garantendosi tempi lunghi per i suoi commerci: a questo sono serviti dapprima il ritardo spaventoso col quale anche l’Italia ha riconosciuto la validità del brevetto farmaceutico (di cui diremo tra breve) e poi i CCP (Certificati Complementari di Protezione) che mettono in sicurezza un prodotto vent’anni dalla richiesta del suo brevetto.

È chiaro che questi sono tutti passaggi che, in un paese dove il primo cliente dell’industria farmaceutica è lo Stato, dipendono dallo sguardo amorevole della politica, che diventa più o meno amorevole a seconda delle “dazioni” di dipietresca memoria.
È chiaro anche che il vizietto di agghindare con riformulazioni o aggiunte cosmetiche la molecola efficace d’origine e di “convincere” i politici che questo è buono e giusto non è soltanto delle aziende italiane.
È tutta l’industria farmaceutica che ha riempito il prontuario dei cosiddetti “me-too” (fotocopia), ovvero farmaci che fanno essenzialmente quello che fanno quelli già in commercio, ma vantano innovazioni per esempio sul piano del metodo di somministrazione o sulla formulazione del prodotto finale: Aspirina, Aspirinetta per la dose necessaria alla prevenzione cardiovascolare o Aspirina con vitamina C, tanto per fare un esempio; Aulin e Aulin plus; o le infinite declinazioni dell’omeprazolo (Antra, Mepral, Losec, Logastric…), farmaco della classe degli inibitori della pompa protonica, attivo contro ulcere e reflusso gastroesofageo.

Per tornare alle aziende italiane, in conclusione, perché darsi la pena di innovare allora, se, come diceva un amico che l’ha fatto e che per questo vuole restare anonimo: «Basta prendere un treno per Roma con una valigia piena di contante»?

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FONTE:
Il giorno in cui il Paese smise di fidarsi della medicina italiana
Dal saggio 'Il bagnino e i samurai'
di Daniela Minerva e Silvio Monfardini
pubblicato il 14 ottobre 2013 (L’Espresso.it)

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The cancer
di admin P.M.
Domenica 23 febbraio 2014



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